Director’s notes for A stranger quest

 

ITALIANO (ENG BELOW)

 

Quando Amundsen e la sua squadra piantarono la loro bandiera al Polo Sud geografico, l’avventura umana come era sempre stata concepita cessò di esistere all’improvviso: il mondo era stato esplorato. Un grande successo per l’umanità, ma al contempo una specie di tragedia subliminale. Nell’età dei satelliti, dove la Terra è esplorabile con uno smartphone e i viaggi spaziali si sono rivelati sempre più utopistici, la razza umana ha perso le sue Colonne d’Ercole da superare, la magia di un’avventura in un orizzonte sconosciuto.

 

In principio avrei voluto fare un film su questo sentimento, cercando di capire come gli esseri umani avessero sostituito questo istinto che fu parte della specie fin dai primi momenti e che in tutti noi è presente come una sorta di arto monco che solletica ancora. Lessi che i sapiens probabilmente riuscirono a soppiantare i Neanderthal per la loro abilità di mappare i territori e di orientarsi efficacemente. Mi appassionai di mappe. Vi ritrovai le tracce di quel sentimento perduto, smarrendomi nelle mappe antiche ai cui margini, nelle terre sconosciute si potevano notare disegni di mostri terrificanti e draghi. E così finii sul sito di David Rumsey, un archivio digitale sterminato di mappe storiche, assemblate da un gusto particolare. Facendo una ricerca capii che si trattava di una delle collezioni private di mappe storiche più grandi del mondo, e fin dal primo momento ho pensato che il senso estetico con cui si succedessero fosse opera di un artista. Quando ho visto che David aveva creato il suo museo dentro Second Life e che parte della sua opera era anche legata agli avanzamenti tecnologici, mi sono detto che avrei dovuto conoscerlo.

 

Non erano soltanto le sue mappe ad affascinarmi, ma tutta una serie di implicazioni legate alla loro quantità, alla mole di lavoro che serviva per costruire un archivio del genere. A un calcolo rapido mi sono reso conto subito che bisognava comprare circa quindici mappe storiche al giorno per trent’anni per raggiungere quei numeri, che soltanto un lavoro meticoloso, costante, ininterrotto e ossessivo poteva essere compatibile con un tale risultato. Che la cura dei metadata, delle descrizioni e dell’ordine con cui venivano sistemate su quella piattaforma fosse maniacale. Che occuparsi così a lungo di una materia, la cartografia, largamente trascurata, completamente sostituita dai navigatori automatici, relegata agli scantinati polverosi dei musei, fosse sintomo di un grande amore. Che gli esemplari contenuti in questo archivio fossero meravigliosi e che tutto ciò fosse stato dimenticato, trascurato dalla Storia dell’Arte. Alcune delle mappe presenti in questo archivio erano dei veri e propri capolavori della storia degli uomini, lavori che se fossero stati sistemati nel Louvre avrebbero catturato l’attenzione dei visitatori per ore. 

 

Una volta conosciuto David e stabilita fin da subito un’amicizia molto intensa e una grande somiglianza di visioni sul mondo e di passioni, ho ritrovato in quella stranissima missione un fantasma, una traduzione, un ricollocamento di quel sentimento originale che spingeva gli uomini oltre il mondo conosciuto. In un certo senso il mio viaggio aveva fatto cerchio ed ero tornato al mio punto di partenza. Nella sua storia, nel suo archivio, nelle sue mappe, ho potuto constatare il fantasma di quella chimera che, materializzandosi oltre l’orizzonte, ha portato gli esseri umani alle grandi imprese. Il lavoro di David non è certo compatibile con la scoperta di un continente, ma è intriso di quel senso di esplorazione del mondo, del rapporto con lo sconosciuto, di una scommessa pagata col tempo della propria vita. In un mondo in cui lo scopo degli esseri umani sembra incatenato alle leggi del mercato, della popolarità e del successo, dedicare la propria esistenza alla costruzione di un archivio di una materia considerata vetusta e superata è per me sintomo di una grande connessione con l’esistenza e col senso della vita. 

 

Quello che è venuto fuori da questo percorso è un film sul senso dell’amore per uno scopo, per una materia, per una missione, per quanto strana, sul nostro assurdo stare al mondo. Io e Antonio Morra abbiamo deciso di girare questo film utilizzando un’unica lente e raccontandolo con una fotografia che assomigliasse alle ricognizioni dei cartografi: un’unica inquadratura per ogni scena, ripresa da ciò che loro definivano “point sublime”, il punto da cui è possibile non solo vedere meglio il territorio, ma anche rappresentarne la sua bellezza. Ne è nato un film che si legge come un atlante, in cui l’immagine si accompagna ai dialoghi e alla dissertazione con lo stesso rapporto che c’è tra l’icona e la didascalia.  Il suono segue un lavoro simile, con il punto di vista della scena sempre tra la macchina da presa e il protagonista, come un orecchio di drone, che ascolta l’avventura come una favola della buonanotte.

 

Adottando infine il punto di vista del suo navigatore satellitare, la storia è raccontata da un’intelligenza artificiale che cerca di interrogarsi su come la vita degli uomini e la loro felicità si fondi su inspiegabili chimere e su stranissime missioni personali, tracciando la distanza fondamentale tra l’uomo e qualunque macchina – e per deduzione qualunque concetto – mai concepibile dal capitalismo. 

 

ENGLISH

 

When Amundsen and his crew planted their flag at the geographic South Pole, human adventure as it had always been conceived suddenly ceased to exist: the world had been explored. A great success for humanity, but at the same time a kind of subliminal tragedy. In the age of satellites, where the Earth can be explored with a smartphone and space travel has proven increasingly utopian, the human race has lost its Pillars of Hercules to overcome, the magic of an adventure in an unknown horizon.

 

In the beginning I wanted to make a film about this feeling, trying to understand how human beings had replaced this instinct which was part of the species from the first moments and which is present in all of us like a sort of stumped limb that still tickles. I read that sapiens probably succeeded in supplanting Neanderthals due to their ability to map territories and orient themselves effectively. I became passionate about maps. I found traces of that lost feeling there, in the old maps where in unknown lands you could see monsters and amazing drawings. And so I ended up on David Rumsey’s website, an endless digital archive of historical maps, assembled with a particular taste. Doing some research I understood that it was one of the largest private collections of historical maps in the world, and from the first moment I thought that the aesthetic sense with which they followed one another was the work of an artist. When I saw that David had created his museum inside Second Life and that part of his work was also linked to technological advancements, I said to myself that I should get to know him.

 

It wasn’t just his maps that fascinated me, but a whole series of implications linked to their quantity, to the amount of work that went into building such an archive. With a quick calculation I immediately realized that it was necessary to buy about fifteen historical maps a day for thirty years to reach those numbers, that only meticulous, constant, uninterrupted and obsessive work could be compatible with such a result. That the attention to metadata, descriptions and the order in which they were arranged on that platform was obsessive. That dealing for so long with a subject, cartography, largely neglected, completely replaced by automatic navigators, relegated to the dusty basements of museums, was a symptom of a great love. That the specimens contained in this archive were wonderful and that all this had been forgotten, neglected by the History of Art. Some of the maps in this archive were true masterpieces of human history, works that if they had been placed in the Louvre would have captured the attention of visitors for hours.

 

Once I met David and immediately established a very intense friendship and a great similarity in visions of the world and passions, I found in that very strange mission a ghost, a translation, a relocation of that original feeling that pushed men beyond the known world. In a sense my journey had come full circle and I was back to my starting point. In its history, in its archive, in its maps, I was able to see the ghost of that chimera which, materializing beyond the horizon, led human beings to great undertakings. David’s work is certainly not compatible with the discovery of a continent, but it is imbued with that sense of exploration of the world, of the relationship with the unknown, of a bet paid with the time of one’s life. In a world where the purpose of human beings seems chained to the laws of the market, popularity and success, dedicating one’s existence to building an archive of a subject considered old and outdated is for me a symptom of a great connection with existence and the meaning of life.

 

What came out of this journey is a film about the sense of love for a purpose, for a subject, for a mission, however strange, about our absurd existence in the world. Antonio Morra and I decided to shoot this film using a single lens and narrating it with photography that resembled the reconnaissance of cartographers: a single shot for each scene, taken from what they called “point sublime”, the point from which it is possible not only to see the territory better, but also to represent its beauty. The result is a film that reads like an atlas, in which the image is accompanied by the dialogues and the dissertation with the same relationship that exists between the icon and the caption. Sound follows a similar work, with the point of view of the scene always in between the camera and the protagonist, like a drone ear, listening to the adventure like a bedtime fairy tale. 

 

Finally adopting the point of view of his satellite navigator, the story is told by an artificial intelligence that tries to question how the lives of men and their happiness are based on inexplicable chimeras and very strange personal missions, tracing the fundamental distance between man and any machine – and by deduction any concept – ever conceivable by capitalism.